martedì 27 settembre 2016

I diversamenti sani curati dai diversamente vivi

Per la serie: "Oggi voglio rendermi simpatico", mi scappano due parole sulla malattia mentale, ma non tanto quella dei pazzi, quanto quella malattia che si manifesta nella cieca ottusità dei sani che non vogliono vedere la realtà e vivono solo di riforme e di slogan ideologici.

Io che lavoro in carcere ho sotto gli occhi una progressiva trasformazione di questi luoghi di reclusione in succursali dei manicomi. Per chi non lo sapesse, infatti, nelle prigioni italiane stanno aumentando a vista d'occhio il numero di detenuti affetti da disturbi mentali. La maggior parte di loro mostra un'evidente correlazione tra l'uso di droghe e alcool (cannabis e cocaina in primis) e lo sviluppo di disturbi psichiatrici. Per altri, una minoranza, un pregresso stato morboso che li ha condotti a commettere reati e quindi, non essendoci posti adatti a loro finiscono tra i detenuti comuni, per la gioia del personale di Polizia Penitenziaria, che si trova ad essere, nella quotidianità, personale più somigliante ai vecchi infermieri del manicomio che ad un corpo di pubblica sicurezza. Sia quel che sia, il carcere è quel posto dove i criminali veri col cervello a posto sanno sfruttare ogni appiglio legale per abbreviare la loro permanenza e invece i folli che hanno commesso reati vengono deposti come in una sorta di cronicario che sostituisce luoghi più adatti, portando scompiglio, stress, emergenze continue e rischi per gli operatori e gli altri detenuti. I luoghi più adatti? Ce ne sono? No, non ci sono più. Il carcere è l'alternativa alla strada, la strada è l'alternativa al carcere, il carcere e la strada insieme sono l'alternativa al nulla.

Franco Basaglia, il profeta dell'antipsichiatria degli anni sessanta, illuminato divo celebrato dagli intellettuali di sinistra ex-sessantottini che tanto amiamo e per i quali spendiamo sempre una parola di benevolenza, proprio lui si era scandalizzato dei manicomi e, pensa che ti ripensa, convegno dopo convegno, libro dopo libro, ha condotto l'Italia, paese notoriamente bigotto ed arretrato, al 13 maggio del '78, giorno in cui la politica partorì la beneamata Legge Basaglia che ha chiuso i manicomi, Da allora i matti - casomai non ve ne foste accorti -  dichiarati vittime del sistema oppressivo delle camicie di forza sono stati liberati. Lo sappiamo, la libertà guarisce, soprattutto quella imposta per legge, così la malattia è stata estirpata per decisione dei parlamentari. Noi non vediamo più matti in piazza, sulla metro, nelle sale giochi, perchè la Legge Basaglia li ha tutti guariti... e quei pochi che ancora girano è perchè non sono stati debitamente informati. 

Per essere onesti qualche problemimo gli eredi di Basaglia ce l'hanno ancora, ma minimo: tipo qualche famiglia che sta lì disperata a domandarsi che fare di un figlio malato di mente a cui lo Stato Illuminato non dà più un manicomio brutto, nè un istituto psichiatrico bello, nè una guarigione. Sono piccoli incidenti di percorso, persone vecchie che pensano che non tutti i matti si possono guarire e che loro si dovranno tenere un pazzo in casa in saecula saeculorum. Comunque presto la questione verrà risolta alla radice: oltre ai matti non vedremo più nemmeno le famiglie dei matti, saranno messe alla gogna dagli emuli di quelli che hanno derattizzato i manicomi, perchè colpevoli di essere al servizio della società maschilista, oppressiva e liberticida.

Insomma, i manicomi erano luoghi terribili, e questo non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, come non abbiamo difficoltà ad ammettere che Franco Basaglia avesse buone intenzioni e qualche buona intuizione,  ma le menti brillanti di cui parliamo,  invece di fare quello che qualsiasi persona di buon senso avrebbe fatto, cioè migliorarne le condizioni, li hanno chiusi, sostituendoli con parole, demagogie, applausi e cooperative sociali. Lasciando i malati, soprattutto quelli più gravi e senza risorse, cioè quelli più bisognosi di un posto adatto,  soli e abbandonati, vittime di loro stessi e a rischio continuo.

Non finisce qua. Siccome i geni scappano dall'Italia, ma gli amministratori rimangono, abbiamo l'ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, che la maggior parte ricorda per il positivo contributo di buon governo che ha donato alla Capitale, ma noi che ci occupiamo di salute mentale, ricordiamo grati anche per il lavoro encomiabile che ha svolto per chiudere pure gli istituti psichiatrici criminali, ovvero quei luoghi dove erano reclusi i malati di mente che avevano commesso reati. Così oggi, gente che ha ucciso in preda ad allucinazioni, gente che ha violentato perchè la testa così gli ha detto, che ha massacrato un compare con cui aveva organizzato un festino (ricordate tutti, vero?), non ha un manicomio criminale dove essere contenuto, trattato psichiatricamente, possibilmente tenuto lontano dalla comunità. Certo, Ignazio Marino ha pensato, e per noi è rassicurante, ha pensato di sostituire (quando?) questi luoghi terribili con case più umane, con operatori specializzati, luoghi dove non essere emarginati dalla società. Ma noi che non pensiamo, però vediamo, vediamo dei poveretti che durante crisi acute riescono a scardinare le porte delle celle, a distruggere gli arredi, a spaccare la testa a imprudenti che...

Ma la prudenza è una virtù per bigotti, non per intellettuali illuminati che conoscono il mondo attraverso il filtro dei pregiudizi ideologici, che non riescono a rassegnarsi alla rassegnazione, cioè alla semplice e pura evidenza dei fatti che la realtà non si adatta ai cervelli dei sessantottini, sono quelli che dovrebbero adattarsi alla realtà. Ma non si adatteranno, moriranno alienati, separati dalla realtà molto più dei cosidetti "pazzi", moriranno pensando di essere diversamente vivi, senza capire di essere sempre stati diversamente morti.


«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

sabato 17 settembre 2016

Depressione, il male malinteso

Sabato 17 settembre, ad un corso di aggiornamento sulla depressione in adolescenza, ho seguito una serie di interventi di vari relatori sul tema. Relatori molti dei quali lavorano in strutture pubbliche, consultori ed altro.
Ho apprezzato in modo particolare la lezione della Professoressa Paola Casolini, docente di Farmacologia e ricercatrice in Neuroscienze, la quale ha illustrato recenti ricerche scientifiche dalle quali emerge sempre più la natura reattiva della depressione. Detto in maniera semplice, lungi dall'essere quel "male oscuro" che nasce dall'inconscio, sembra sempre più evidente come la depressione sia una risposta a fattori esterni alla persona.
Le Neuroscienze lo dicono, e la nostra pratica clinica lo verifica: la depressione - in modo particolare quella in età giovanile - non può essere considerata meramente una malattia da trattare a suon di psicofarmaci in maniera superficiale e affrettata (in sede di corso ci ricordavano come l'efficacia dei farmaci sia tutta da verificare, mentre l'interesse delle case farmaceutiche e gli effetti collaterali di queste molecole siano abbastanza evidenti...). Non è, la depressione, nemmeno un disagio della psiche che può trarre giovamento da trattamenti psicoterapeutici che ignorano il significato esistenziale del sintomo.

Il problema è che, diversamente da chi è all'avanguardia nella ricerca, la maggior parte chi opera sul campo non si è ancora completamente svincolato da una visione antica, vetero/sessantottina, infarcita di ideologia, contaminazioni psicodinamiche mal digerite. E, soprattutto, da una mentalità che ha ripudiato la filosofia. Che c'entra la filosofia? Presto detto.

La filosofia, cioè il ragionamento sull'uomo e sulla realtà, è nata più di due millenni fa proprio per dare una risposta alle grandi domande sull'esistenza, sulla vita e sulla morte. La morte, il terribile tabù di cui oggi nessuno parla. O meglio se ne stra-parla, la si mostra dappertutto, la si banalizza per esorcizzzarla, la si dona anche ai bambini: di oggi la notizia  della prima eutanasia al mondo di un bambino - grazie Belgio, sede del Parlamento Europeo (per non parlare degli aborti anche per le giovanissime a cura delle Asl...). La morte diventa splatter, horror, arte macabra o cestino dei rifiuti, così  si dimentica che invece è vera, è la nostra realtà e il nostro destino, certo.

La filosofia ha cercato di dare una risposta ragionevole al problema della morte, ad inglobarla in una visione di vita, a promuovere una ricerca spirituale e religiosa soddisfacente. Sembra invece che questo sforzo di ricerca razionale, questa sapienza accumulata, questi cammini intrapresi, siano del tutto sconosciuti ai finti moderni, ai laici e smaliziati guaritori, ai cultori delle terapie emotive ed ottimistiche che ignorano il dramma e lo sforzo di trovare un significato. Così, la persona che non sa trovare un senso diventa depressa, si fa seguire da un'altra persona che banalizza la ricerca di senso e idolatra solo la ricerca di sesso, il sesso va a sostituire il senso, e tutti vissero felici e anestetizzati.

La Psicoterapia deve dare voce alle domande

In sede di crso, insieme ai colleghi presenti abbiamo provato a ricordare che se gli operatori della salute mentale non avranno il coraggio di andare al cuore della questione, cioè che la depressione è innanzitutto un urlo di impotenza di chi vuole sapere per quale motivo si trova a vivere una vita che non si è dato da solo, tra cent'anni vorremo ancora fare corsi sulla depressione e rimirarci l'ombelico. Ma nel frattempo la psicologia sarà defunta.

«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

giovedì 8 settembre 2016

Il momento è questo

Una delle operazioni più difficili che periodicamente siamo chiamati a fare nella vita è decidere il momento giusto per agire. Basta un pò di anticipo e ogni cosa viene compromessa, basta poco ritardo, quando la spinta propulsiva degli eventi ormai è sfuggita, per non poter più fare centro. La variabile tempo è importantissima nella riuscita o nel fallimento di un progetto.

Non credo esista il segreto per fare le cose al momento giusto, eppure il momento giusto c'è sempre. Scoprirlo è questione d'istinto, ma anche di fiducia. Ho l'impressione che nelle cose importanti il momento giusto s'imponga da sè, se noi non ci mettiamo di traverso. Credo che il nostro compito sia quello di non essere precipitosi, cioè di pretendere subito che le cose avvengano, ma anche di non essere paurosi (I cosiddetti "cacadubbi"). Anche se la scelta riguarda la nostra vita dobbiamo metterci in un atteggiamento mentale di distacco, come se fosse una questione lontana e tutto sommato indifferente. Dobbiamo ragionare con la testa, ma anche sentire con il corpo le dinamiche che si sviluppano intorno a noi. Il momento giusto ha un profumo, una convinzione, una trasparenza tale che quando arriva ne avvertiamo la presenza. E' quello il momento di agire, rapidamente e senza ripensamenti, con tutta la sicurezza di cavalcare l'onda giusta.


Bisogna allenarsi a scegliere il momento di fare le cose, cominciando da quelle più semplici: decidere quando parlare, decidere quando partire, decidere il momento di pulire casa e quello di battere i pugni sul tavolo. 
Ci sono persone che ci stupiscono per la loro capacità di agire con precisione ed efficacia, quasi senza fatica, alternando attività e riposo, progettualità e operatività, intervento e attesa. Sono persone che quasi ballano con la vita, andando a tempo e riuscendo ad essere produttivi in una maniera che sembra miracolosa. Certamente sono doni rari, ma ognuno di noi può decidere se "farsi vivere" dagli eventi o dominare consapevolmente le proprie decisioni.

«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

venerdì 2 settembre 2016

La solitudine e il suo rimedio

In molti soffrono di solitudine, e spesso il disagio conseguente  viene confuso con la depressione. Quel che è peggio è che alcuni vengono trattati con farmaci antidepressivi...
La solitudine, diciamolo subito, non dipende da quanto tempo restiamo da soli. Dipende soprattutto dalla "verità" dei nostri rapporti affettivi.
Il dolore della solitudine è paragonabile solo a pochi altri dolori, perchè l'essere umano è fatto per stare insieme, ma il collante di questo stare insieme non è la compagnia, nemmeno il sesso, è solo l'amore. Un amore fedele e indissolubile, un amore che accoglie e che perdona, che non giudica, ma che corregge, che sa soffrire e sa donare in sovrabbondanza. Insomma, quello che in natura si trova solo nella famiglia costruita con criteri antisismici. L'antidoto alla solitudine è l'essere in famiglia.
Siccome da molti anni la famiglia è in crisi perchè tante forze hanno agito nella direzione della sua dissoluzione, tolta di mezzo la famiglia è apparso il cratere fumante della solitudine.

Allora, chi non ha una famiglia o ha avuto la sua famiglia dissolta dagli eventi dalla vita è condannato alla solitudine? Chi si trova in queste condizioni è in una condizione di svantaggio, è innegabile, ma può certamente reagire. La risposta che deve dare alla sua solitudine è l'amore, ma l'amore oferto generosamente, non quello preteso (o ricercato disperatamente). L'amore è una potenza di guarigione straordinaria, sia per chi l'offre sia per chi lo riceve. Non tutti siamo nelle condizioni di ricevere amore, ma tutti possiamo donarlo. Chi riesce ad uscire dal suo egoismo o dalla pretesa di rivendicazione e si dedica ad offrire amore, cioè a guardare "la fame" dell'altro cercando di nutrirla, in realtà scopre di nutrire se se stesso. Il paradosso dell'amore è che noi possiamo fare il nostro bene solo di rimbalzo, cioè gettandolo sull'altro e ricevendolo indietro come un contraccolpo. Chi si appropria del bene per sè in realtà lo distrugge e si trova in mano solo polvere.
La solitudine appartiene a chi non si carica della solitudine degli altri.

«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)