sabato 24 maggio 2008

Second Life

Riprendo la mia riflessione sulle dipendenze (vedi). Oggi molti cercano la loro "Second Life", un rifugio individualista e recintato dove - anestetizzati - si possa vivere lontani dalla "First Life", cioè la realtà vera, la vita di tutti i giorni. Qualcuno questa seconda vita la trova in realtà parallele, tra le quali spicca proprio il mondo virtuale e internettiano di "Second Life". Ma - come dicevamo nel precedente post - non c'è solo internet, molti affidano il loro rifugio nell'alcool, altri nel gioco compulsivo. Un numero sempre più grande nel sesso senza limiti e regole. Moltissimi si affidano ad hashish e marijuana, non mancano quelli che la loro "bolla" la trovano in pratiche esoteriche o paraesoteriche (new age, yoga, zen...) veicolate da sette e sedicenti guru. La televisione, fa la sua parte, come anche lo sport quando diventa ragione di vita. Esperienze disparate, ma che in comune hanno la possibilità di essere usate come TAZ. TAZ, significa Temporary Autonomus Zone (zona temporaneamente autonoma), un concetto proposto dallo scrittore Peter Lamborn Wilson, più conosciuto come Hakim Bey, maestro e guida riconosciuta dei gruppi anarchici, no global e dei centri sociali, nonchè teorico e studioso del fenomeo della pederastia spirituale (tanto per far capire il soggetto). Hakim Bey descrive la TAZ come un territorio mentale che elude i normali centri di controllo, ha una vita breve, si realizza sul confine di regioni prestabilite dai meccanismi istituzionali. Insomma, un territorio soggettivo e anarchico che si può anche concretizzare per brevi momenti (ad esmpio un Rave) e nel quale vivere fuori delle regole sociali e dare sfogo ad ogni impulso.
Nella foto Akim Bey Hakim Bey teorizza la TAZ come un'esperienza
rivoluzionaria di liberazione. Io ritengo invece, che sia un concetto interessante per descrivere il disagio mentale dei nostri giorni.


Quando una persona non ce la fa a vivere la propria "first life" con le sue responsabilità e le sue fatiche, sente il bisogno insopprimibile di scappare in un mondo fantastico e irreale, in cui stimolazioni neurologiche potenti fanno dimenticare per un pò la realtà e inducono uno stato di piacere effimero e artificiale. Salvo poi, quando ritorna nella vita vera, cadere in uno stato di prostrazione profonda, di delusione, di aridità, di angoscia che la spinge a ripiombare nell'auto-consolazione di una nuova TAZ. Un circuito perverso di auto-annichilimento che estranea sempre più dalla Vita.


Nella pratica clinica, ho verificato che il concetto di TAZ può essere estremamente utile per leggere una serie molto varia di psicopatologie che vanno dagli stati d'ansia, ad alcuni tipi di depressioni, alle polidipendenze. Il panorama attuale mostra sempre più spesso, infatti, pazienti che sfuggono alle tradizionali classificazioni diagnostiche, e che non sapendo come altro etichettarli, gli psichiatri li mettono nel grande calderone dei borderline. Il concetto di TAZ, ci viene in aiuto per individuare la caratteristica comune a questi pazienti: il terrore, l'incapacità, l'inadeguatezza, comunque la difficoltà sempre maggiore di riuscire a sostenere le responsabilità quotidiane, per una mancanza di motivazione alla vita stessa. Con la conseguente tendenza a crearsi degli spazi mentali di isolamento attraverso comportamenti rituali, compulsivi, super attrattivi, in grado di occupare lo spazio mentale Non è la semplice "fuga dalla realtà" con cui spesso si liquida in modo superficiale il problema dei drogati. E' uno stato d'animo di angoscia che emerge di fronte a qualsiasi tipo di frustrazione, che riguarda anche persone che non vorrebbero estraniarsi dalla vita. E allora, la cosiddetta fuga dalla realtà è più corretto concettualizzarla come un'immersone temporanea in una bolla in cui liberare (per liberarsene) i più sentimenti più angosciosi (paura, inadeguatezza, spesso rabbia e violenza); questi sentimenti si possno così esprimere in modo sfrenato e incontrollato in uno spazio mentale, e talvolta fisico, senza regole, per poi poter riassumere un controllo del proprio io e ritornare "ricaricati e purificati" nel mondo normale. Da un certo punto di vista questo comportamento potrebbe essere considerato funzionale all'equilibrio complessivo della persona. Il problema, però, di cui parleremo la prossima volta, è che per le regole dell'apprendimento, la bolla scelta diventa dipendenza, gabbia, e alla fine, patibolo.

sabato 10 maggio 2008

Nuove tendenze in tema di carcere ?

Fino la seconda metà del 1700, la reclusione non era considerata una vera e propria pena, ma solo una modalità necessaria per poter poi somministrare le pene specifiche stabilite dalle legislazioni correnti, che potevano andare – a seconda delle epoche e dei luoghi – dalle pene corporali, al risarcimento dei danni provocati, all’esilio, alle galere, ecc., con un’attenzione comunque puntata a mantenere un rapporto tra reato commesso e punizione subita, che doveva rispondere ad un’necessità sociale di espiazione. Solo dalla fine del XVIII° secolo è subentrata una considerazione della reclusione in carcere come pena in sé stessa, a cui si è andata gradualmente accompagnando una visione riabilitativa/rieducativa della carcerazione. Si è arrivati poi a considerare la reclusione come un’occasione per favorire il reinserimento sociale del reo. Nella Costituzione italiana troviamo all’articolo 27, comma 3: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
Poi è venuta la Legge 354 del '75, che ha riformato l'intero sistema penitenziario. Si è iniziato a considerare il detenuto come individuo, che aveva sì commesso un reato, ma a cui andava offerta la possibilità di una riabilitazione, attraverso l'offerta di un percorso individualizzato in carcere e la creazione di un trattamento "su misura" per facilitargli un reinserimento sociale. La Legge del '75 nonostante le buone intenzioni non è servita a molto - non si sa se perché basata su presupposti errati o per un'applicazione scorretta. Il numero dei detenuti che tornano a commettere reati dopo la scarcerazione è altissima. Quelli che davvero riprendono una vita regolare sono delle rare eccezioni.Ma il legislatore è andato avanti sulla stessa strada, anzi di più. Spinto da una cultura (non sembra ma la cultura fa sempre da apripista, il problema è quando la cultura diventa brodo di coltura) ideologica, il legislatore ha sfornato sempre maggiori occasioni per i detenuti di uscire dal carcere o diminuirne la durata. L'apoteosi è stato l'indulto dell'anno scorso, provvedimento tanto inopportuno e nocivo quanto demagogico e irrazionale. Non ha prodotto nulla di buono.Ma la coltura va avanti,Nessuno ha il coraggio di fare delle riflessioni serie sul senso della pena, o anche se qualcuno ci prova non si traggono le debite conseguenze. Così, oggi, la tendenza è quella - logicamente consequenziale - della sanitarizzazione del carcere. Il detenuto non è più considerato come persona che ha sbagliato e deve subire le conseguenze negative del suo comportamento, ma come un malato che è stato portato al reato da fattori esterni a lui (malattia mentale, emarginazione, depressione, condizioni sociali o familiari difficili, ecc.) e che quindi va curato. In questo modo il carcere sta diventando sempre più "ospedalizzato", L'attuale passaggio della medicina penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute testimonia appunto questa scelta ideologica.Ho sentito con le mie orecchie un'alta dirigente del Provveditorato all'Amministrazione Penitenziaria del Lazio esprimere in un pubblico convegno la sua preoccupazione perché i detenuti entravano in carcere "stressati". Evidentemente, secondo la signora,merita più preoccupazione il detenuto stressato che il lavoratore che da quel detenuto è stato scippato del suo stipendio. Così come ho sentito dire in una riunione di commissione al Comune di Roma, che è sacrosanto che un detenuto che deve fare un'analisi in ospedale non debba aspettare quanto un cittadino libero, ma abbia una corsia preferenziale..! Meglio tornare alla nostra riflessione. Questo percorso colturale, che attualmente ha portato all'attuale orientamento di medicalizzazione, è pericoloso, perché arriva a giustificare tutti, a eliminare la responsabilità personale, ed è pericoloso soprattutto perché pedagogicamente nocivo: trasmette il messaggio che commettere reati non è rischioso, e - ancor peggio - che commettere reati è un fatto lieve, in fondo è solo l'effetto della propria condizione su cui non si può far nulla, quindi non è condannabile (mica siamo fondamentalisti, moralisti, intolleranti, ecc. ecc.).Come psicologo mi rendo certamente conto che le persone agiscono spinti da mille condizionamenti, e che la nostra libertà è spesso fortemente compromessa da tante variabili. Ma, paradossalmente, il fatto di agire “come se” le persone fossero libere, il trattarle da adulte e responsabili le aiuta realmente a diventarlo. Un sistema giuridico che offra la certezza della pena, e di una pena seria, non abbatterà certamente il crimine, ma ribadirà l'insegnamento su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Avrà un valore pedagogico. Su questo blog abbiamo già parlato dei padri assenti, dei padri che non sanno dare regole con fermezza, e ne abbiamo visto i danni. In qualche modo essi rappresentano lo stato che non vogliamo, uno stato che ride delle marachelle dei suoi figli, fino a quando si autodistruggono nella totale incoscienza del genitore.
Dobbiamo sempre ricordare che il buonismo è il cancro della bontà, si nasconde sotto una veste di umanitarismo, ma porta a frutti di totalitarismo.