Mi è capitato di sostare un attimo davanti alla televisione in un momento in cui c'era la moglie di Rutelli, la Palombelli. L'ho vista alla postazione di comando di Forum, quel programma in cui la gente litiga in una specie di aula di tribunale-pollaio chiedendo poi al giudice chi ha ragione e chi ha torto. Non so bene come nè perchè, ma la discussione sulla questione specifica, che riguardava un appartamento conteso, è scivolata sull'evidente volgarità di abbigliamento delle litiganti. La Palombelli, assumendo un tono da pontefice del femminismo cercando di mantenere una sorta di dignitoso distacco, urlicchiava: "Io da giovane, le mie battaglie per vestirmi come mi pare, andando contro quello che diceva mio padre, i fratelli, gli uomini... le ho fatte... ognuno ha diritto a vestirsi come gli pare!). In realtà la Palombelli non veste affatto come le pare, ma tutte le volte che mi capita di vederla è sempre elegantisima e alla moda, firmata e in perfetto Radical-Chic-Style, come il politicamente corretto comanda. E inoltre è abbastanza ridicola nel suo slancio critico verso gli uomini. A meno che gli uomini contro cui andare sìano per la signora quelli poco potenti che non aiutano a far carriera e a raggiungere salotti buoni...
Palombelli in Rutelli
Comunque la riflessione che mi veniva in mente di fronte alle esternazioni dell'intellettualessa era molto più terra terra: sì, ognuno è libero di fare e impostare la propria vita come gli pare, ma deve avere il coraggio di accettarne anche le conseguenze. Se mi va, posso portare un rolex d'oro e girare di notte in un quartiere malfamato, ma se poi mi rapinano non devo lamentarmi. Se mi va, posso passare la mia giovinezza a divertirmi, ma se poi mi ricordo che voglio un figlio quando il mio fisico è invecchiato e usurato, non posso incolpare il cielo o pretendere di comprare un figlio al laboratorio. Se mi va, posso mettere gonne girocollo e scollature ombelicali, ma se poi qualcuno equivocando mi tratta da... Saluti alla Palombelli in Rutelli.
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«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
Ho il piacere di farvi conoscere un bellissimo articolo scritto da un giornalista di nicchia, assai contestato, ma che talvolta ci da - ome in questo caso - grandi soddisfazioni. E' il riconoscimento di un fallimento (almeno apparente) e allo stesso tempo è una descrizione precisissima in poche battute della storia del nostro paese attraverso le capriole spudorate fatte dai "migliori":
Confessione di un intellettuale: sono del tutto inutile
Maurizio Blondet
Mentre ripercorro nel libro di Gianantonio Valli “Giudeobolscevismo”
i crimini e le atrocità inenarrabili del comunismo – in gran parte
fatti a me noti – mi sorprendo a ripensare alla inutilità della mia
vita di giornalista-intellettuale anticomunista. Per quanti decenni io
ho (con altri, migliori di me) combattuto il comunismo diffondendo
informazioni sui suoi delitti? Almeno tre. Per trenta o quarant’anni
abbiamo lottato, in eletta minoranza, contro la filosofia – ideologia
– marxleninista, ne abbiamo mostrato la fallacia, l’abbiamo combattuta
sul piano delle idee del pensiero; abbiamo dibattuto, pubblicato
libri, articoli: tutto inutile.
Inutile. I comunisti italiani – un buon 30% della popolazione
votava PCI e un altro 10% i partiti più a sinistra, più totalitari –
restavano ermeticamente chiusi nella loro fede, inconcussi, refrattari
ai nostri argomenti, idee, informazioni che provavano il fallimento del
sistema che ardevano di portare anche in Italia. Più impressionanti
erano gli intellettuali: all’80 per cento almeno simpatizzanti per il
totalitarismo rosso. Esaltavano Fidel, sventolavano il Libretto Rosso
di Mao. Occupavano cattedre universitarie, giornali, tv, case editrici;
l’ intero “mondo della cultura” era in mano loro; l’orribile Piccolo
Teatro di Strehler era il luogo dove la potente Cgil precettava
lavoratori pagando il biglietto perché “le masse” potessero abbeverarsi
al verbo brechtiano (e salvassero Strehler dalle poltrone vuote).
Giornalisti, intellettuali, attori e professori usavano
continuamente e con sciolta competenza la terminologia e le categorie
marxiste, adottavano pienamente ed esclusivamente il materialismo
storico come mezzo d’interpretazione del mondo. Nelle università
celebri (allora) docenti sfondavano noi studenti con esegesi infinite
de Il Capitale, dei Grundrisse, di “Che Fare?” di Vladmir Ulianov Lenin, come nel Medio Evo ci si applicava all’esegesi del Vangelo o di Aristotile: Ipse Dixit.
Credo che i giovani oggi, diciamo i trentenni, non possano nemmeno
immaginare come dominasse e trionfasse, nella cultura italiana, il
pensiero unico comunista.
E come noi, la minoranza intellettualmente antagonista, venisse
censurata, derisa, aggredita – anche fisicamente – ed esclusa dai
centri di diffusione della cultura, Occupavano tutto lo spazio. Nemmeno
l’uscita di Arcipelago GuLag di Solgenitsyn – la piena,
documentata e non smentibile rivelazione dell’universo concentrazionario
sovietico – li scosse; si rifiutavano di leggere “quel reazionario,
quel cristiano fascista” – allo stesso modo in cui l’Aristotelico
canzonato da Galileo si rifiutava di guardare nel cannocchiale. Nei
salotti, gli intellettuali “à la page” si vantavano di non
averlo letto. Il sistema culturale riuscì persino a ritardarne la
pubblicazione in Italia di qualche anno, se ben ricordo.
Monolitico, inattaccabile, ci appariva ed era il Comunismo. E di colpo, un giorno è scomparso.
Puf! Sparito. Volatilizzato.
Da Stalin a Rockefeller – via Bronfman
E ovviamente, non perché i suoi adepti siano stati convinti dalle
nostre idee e toccati dalle nostre battaglie filosofiche. No, noi non
possiamo affatto vantarci di aver vinto il comunismo coi nostri
articoli e informazioni documentate. Non abbiamo convertito nemmeno uno
di loro. Che cosa è stato, allora? Ovviamente, il collasso del sistema
sovietico. Ma questo non basta a spiegare la rapidità e spigliatezza
con cui intere legioni di politici, scrittori, teatranti,
cinematografari e ideologi hanno dismesso l’habitus marxista e
tutto il bagaglio di convinzioni e studi su cui avevano centrato la
vita, il loro prestigio e costruito la loro carriera, per trenta o
quarant’anni. Voglio dire: il crollo del comunismo sovietico è stato
una immane tragedia (come ha ben detto Putin); ma appunto per questo,
uno si sarebbe aspettato, da parte di quelli, un minimo di elaborazione
del lutto, segni di smarrimento e di dolore; dopotutto, fra loro c’erano
molti che a suo tempo avevano pianto per la morte di Stalin.
Ma quale lutto. Ricordo ancora con ammirato stupore la disinvolta
velocità con cui Achille Occhetto, capo dell’allora più grosso partito
comunista d’Occidente, si recò in visita dal miliardario ‘canadese’
Edgar Bronfman capo del Congresso Ebraico mondiale, per fare sdoganare
sé e il PCI presso i poteri del capitalismo globale. Bronfman, che
oltre che padrone della Seagram (Whisky) era anche insignito dal regime
della Germania Est della massima onorificenza comunista, la Stella dell’amicizia dei Popoli,
aveva già reso lo stesso servizio a Gorbaciov; poche ore dopo
l’incontro col miliardario ebreo – maggio 1989 – Occhetto si incontrò
(cito da Repubblica) “con David Rockefeller”, fu intervistato dai “ due maggiori quotidiani Usa: il Washingon Post e il New York Times”,
rese omaggio “al cimitero di Harlington, dove riposano i fratelli
Kennedy, e al monumento ai caduti del Vietnam”, e poi fu impegnato in
“una fitta serie di colloqui con esponenti del Congresso” Usa. Tenne
anche “conferenze pubbliche al Carnegie Endowment for Peace di
Washington, e al Council on Foreign Relations”. Penso sia inutile
precisare che in quel fruttuoso viaggio, Occhetto fu accompagnato da un
solo altro esponente del comunismo: Giorgio Napolitano. Ne uscì, lui e
il partito, candeggiato e legittimato a prendere il potere in Italia
al posto della DC: ovviamente dopo libere elezioni. Aiutato, è vero,
dalla valorosa magistratura che, con geometrica sincronicità, gli spazzò
via i partiti potenzialmente concorrenti, la DC di Andreotti e Forlani
e il Psi di Craxi con la leggendaria operazione “Mani Pulite”. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/05/16/la-missione-di-occhetto.html
Fu il più acrobatico e ammirevole salto sul carro del vincitore cui
abbia assistito nella mia vita. Abbandonata la classe operaia alla
grandine della globalizzazione e alla concorrenza dei salari cinesi
messicani, romeni – la deindustrializzazione, il massacro salariale del
‘proletariato’ – , il PCI si dedicò a difendere “minoranze oppresse”
più comode: i finocchi, e i parassiti pubblici, anzitutto. Ma il
punto veramente stupefacente fu il nuovo atteggiamento dei dirigenti e
della “cultura di sinistra” al completo: il comunismo e la sua storia di
sangue e di gloria, non li riguardava più. I suoi delitti, i
milioni di morti – crimini che i dirigenti PCI e i suoi intellettuali
organici avevano giustificato, anzi rivendicato come necessari passi
della “dittatura del proletariato” nell’avanzata verso la “società
senza classi” in mezzo secolo di dibattiti e scontri dialettici (e
fisici) con noi anticomunisti – non avevano più niente a che fare con
loro. Da allora, a nessuno di essi è mai capitato di usare il
linguaggio marxiano: ed è gente che per anni ha frequentato la “scuola
di formazione politica alle Frattocchie”, dove di quel linguaggio, e di
quella filosofia si veniva imbevuti. Erano diventati un foglio
bianco. A me è capitato di citare Marx, di difendere la sua critica al
capitalismo globale (una pars destruens veramente profetica); a
loro, mai. D’Alema bombardava l’antico compagno Milosevic con la NATO,
e si comprava lo yacht da regate da un paio di miliardi di lire, come
se mai avesse letto la sardonica frase di Karl sul “modo di esistenza
che crea la coscienza” (traduco: chi vive da ricco, pensa e giudica da
ricco e difende il sistema sociale anche più ingiusto, perché lo
sente naturale e meritevole). E Walter Veltroni? “Mai stato
comunista”, disse. Ed era iscritto al Pci dall’età di 14 anni. Credeva
d’essersi iscritto ad una bocciofila.
Mai le idee hanno avuto un ruolo
Insisto, per i lettori più giovani: mai in questa metamorfosi è stata
questione di “idee”. Di revisione di idee sbagliate, di riconoscimento
di idee vere e giuste. Mai. Le idee sono semplicemente state
abbandonate, come si abbandona un vestito fuori moda. Come i pantaloni
a zampa d’elefante, il marxismo-leninismo “non si portava più”.
Il fenomeno, più che nei politici, fu sbalorditivo negli
intellettuali, quelli che vivevano di idee, e di “quelle” idee – o
almeno così credevamo noi. Fu chiarissimo che quelle idee le avevano
sostenute finché aiutavano alla carriera. Peggio: noi anticomunisti
dovemmo constatare che gli avversari intellettuali avevano seguito,
massicciamente, “la moda”. Per anni ed anni, essere comunisti o
compagni di strada, è stato di moda. Era “attuale” e moderno, faceva stile
essere rosso. Era “la tendenza del momento” per cui si veniva invitati
nelle tv, a scrivere opinioni sui grandi giornali, nei salotti buoni,
negli ambienti che contano, e nelle direzioni mediatiche potenti. Di
colpo, con sicuro istinto, gli intellettuali di sinistra sentirono che
il marxismo non “non è più in voga”; e mai si son fatti cogliere, da
allora, a portare una cosa così vecchio stile, così poco fine, come il
“socialismo reale”; quello “sovietico” poi, figurarsi.
S’intende che sono rimasti di moda, adottando le mode sociali della
sinistra “attuale”: non più quella totalitaria (su cui avevano giurato, e
che volevano imporre al Paese), ma quella libertaria. Radical-chic.
Sessantottina. Edonista. Paolo Mieli, allora direttore del Corriere,
indicò la strada:con articoli che proclamavano “il ritorno al
Privato”. Prima, era stato di moda il contrario: “Il Privato è
politico”, “Tutto è politica”, la ”rivoluzione sociale, il
collettivismo” richiedevano il sacrificio di ogni intimità. Adesso,
contrordine compagni: tornate al privato. Agli amori, agli ed alle
amanti dei vari sessi, alle regate, alle cene sulle terrazze romane
immortalate da Ettore Scola, alle vacanze intelligenti fra “noi che
siamo à la page”. I Vip Non aspettavano altro, gli intellettuali rossi.
S’intende che noi anticomunisti, non siamo divenuti di moda. Mai.
Eravamo fuori moda quando denunciavamo che i milioni di morti erano
prodotti di un sistema politico-ideologico radicalmente sbagliato, che
aveva idee errate sull’uomo e la natura; siamo rimasti fuori moda
anche dopo che il crollo del socialismo sovietico e quello maoista dava
ragione alle nostre idee. Siamo rimasti la minoranza “noiosa”,
passatista, “reazionaria” e peggio “clerico-fascista” di prima. Da
questi insulti era chiaro il vero motivo per cui non ci invitavano nelle
terrazze romane immortalate da Scola: ai loro occhi, vestivamo gli
abiti di una moda passata da un secolo, forse da secoli. I secoli di
quel passato in cui ciò che importavano, erano i concetti di “vero” e di
“falso”, non di “attuale e inattuale”.
Non che, personalmente, me ne lamenti. Essere eternamente “inattuale”
e fuori moda è il destino che ho scelto, perché per me è insopportabile
“vivere nella menzogna” (come diceva Solgenitsyn). So che in
questo sono in migliore compagnia di quella che si spartisce i posti nei
salotti e nelle terrazze, e mi rallegro dei pochi amici e di qualche
lettore che condivide la stessa passione.
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
Riporto un pezzo uscito sull'Ansa dedicato a ricerche sul latte materno. Io, che in fondo rimango un ingenuo, mi domando come possano esistere scienziati talmente ottusi da sostenere ancora l'evoluzionismo quando basta affacciarsi sulla natura per capire che simili perfezioni non si possono spiegare con le baggianate indimostrabili dei seguaci di Darwin:
Il latte umano, unico nel regno animale
Il latte umano è unico
nel regno animale. Con i suoi oltre 200 tipi di zuccheri, il doppio
rispetto a quello del latte di mucca, è il più complesso tra quello di
tutti i mammiferi. Tanto che capire il ruolo di tutte queste molecole e i
loro cambiamenti è ancora un rompicapo scientifico per i ricercatori. A
fare il punto su ciò che si sa e non si sa è la revisione di diversi
studi, pubblicata dai ricercatori dell'università di Zurigo sulla
rivista Trends in Biochemical Sciences.
Il latte materno è spesso il primo alimento che si consuma, ma molte
delle sue molecole di zucchero non servono a nutrire il bambino. I
neonati nascono privi di qualsiasi batterio nell'intestino, ma già a
pochi giorni dalla nascita ne hanno milioni, e una settimana dopo
miliardi. Gli zuccheri del latte materno sono il primo composto di cui
si nutrono questi batteri. ''Il primo impatto del latte materno è
favorire la colonizzazione dell'intestino da specifici gruppi di batteri
che possono digerire queste molecole di zucchero.
I neonati non hanno 'l'attrezzatura' per digerirle'', spiega Thierry
Hennet, coautore dello studio. Il latte materno aiuta anche a costruire
il sistema immunitario del bambino. Già dopo la nascita è ricco di
anticorpi e le sue molecole rallentano la crescita di batteri
pericolosi, coordinando l'attività delle cellule dei globuli bianchi. A
un mese dalla nascita, quando il bambino inizia a sviluppare un sistema
immunitario suo capace di adattarsi, la composizione del latte cambia, e
il livello di anticorpi materni si riduce di oltre il 90%, così come
cala la diversità delle sue molecole di zucchero, mentre aumenta il
numero di grassi e di altri nutrienti che sostengono la crescita...
Quando leggo queste cose e poi devo sentire che oltre agli scienziati ancora pro-evoluzionismo ci sono politici omosessuali che vanno in America a comprarsi un figlio strappato alla madre che ha affittato l'utero, ho pietà per la mia epoca...
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
Casaleggio, appassionato del mago Gurdjieff, seguace di esoterismo, gnostico e visionario. Profeta di un futuro in mano ad una piccola elite di sapienti della religione universale dominanti su un gregge di dormienti, ecc. ecc. Insomma, un poveraccio.
Casaleggio è stato un uomo molto intelligente, che ha usato male la sua ntelligenza; conoscitore di internet come pochi, manovratore di opinioni, utilizzatore di Grillo gestendo il quale ha cercato di realizzare il suo sogno di un'umanità democraticizzata a suo piacere e quindi controllata e dominata. Viene in mente l'America, portatrice sana di democrazia... E in effetti Casaleggio non è stato lontano dai salotti del potere americano con il quale si è inteso e scambiato più di un bacino.
Ora, in braccio a Gaia, la sua dea presa a prestito dai miti gnostici, non tira più fili e persone. Se gli è permesso, riposi in pace.
Per chi vuole sapere chi fosse davvero Casaleggio Gianroberto questo è un gran bell'articolo: Link
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
E' un periodo in cui non si fa altro che parlare di misericordia, soprattutto in ambito ecclesiale. Ma a volte abbiamo l'impressione che la misericordia venga ridotta ad un buonismo politicamente corretto, cioè al rifiuto di distinguere il bene dal male, ad un atteggiamento indifferenziato di scusare ogni cosa senza fare nemmeno lo sforzo di capire che cosa stiamo scusando.
Molti accettano tutto senza fare lo sforzo di evidenziare il male che stanno accettando. Facendo così si sentono misericordiosi, e sentendosi misericordiosi si sentono a loro volta perdonati prima ancora di conoscere il loro errore.
La misericordia si può ammalare di buonismo tutte le volte che manca di verità. E verità è ciò che è. Se un genitore perdona un figlio "a prescindere", a prescindere cioè da
un'opera di educazione, di chiarificazione dello sbaglio, di un'assunzione di responsabilità, questa è veramente misericordia? Va bene che non si richiede che chi ha sbagliato raggiunga subito una piena consapevolezza, lasciamo stare lacrime di pentimento, passiamo sopra sulla richiesta di scuse... Ma quanto meno si chiede che chi ha sbagliato si renda conto che quello che ha fatto è una cosa che gli ha portato dei danni, che ha sbagliato scelta. Perdonare chi ha gli occhi chiusi non è un atto nè misericordioso nè intelligente, ma più probabilmente un inganno. La prima misericordia è istruire e formare alla verità, chiamare bene il bene e male il male. Senza sconti.
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
La Psicoterapia è una scienza, una tecnica, un'arte?
Scienza La scienza svolge un'attività di ricerca con procedimenti
metodici e rigorosi, per giungere a elaborare un modello
(approssimazione verosimile, oggettiva e con carattere predittivo) della
realtà e delle leggi che regolano i suoi fenomeni. La
Psicologia può essere considerata scienza, la psicoterapia meno, anche
se, prendendo in esame il singolo paziente, nel corso della psicoterapia
si cerca di costruire un modello esplicativo del funzionamento di
quella persona, ma lo scopo non è la conoscenza fine a se stessa, bensì
il favorire un migliore funzionamento psichico.
Tecnica Parlare di
tecnica non è improprio, perché la psicoterapia applica le conoscenze
psicologiche per ottenere i risultati desiderati. La psicoterapia
richiede il saper padroneggiare delle tecniche base e assemblarle
all’interno di una strategia globale, quindi potremmo pensare la
psicoterapia come una “meta-tecnica”.
Arte L’arte è stata definita
in tanti modi, ma alcuni elementi sono sempre presenti: E’ un’attività,
che utilizza tecniche, ma utilizzate alla ricerca della loro massima
espressione estetica; che conduce al bello (e al vero); che richiede
perizia, esercizio e continua ricerca di perfezionamento; che unisce
positivamente le persone che l’ammi rano; che porta a risultati
riconosciuti generalmente come esteticamente belli, che rappresenta la
realtà nel suo aspetto migliore, che ha un valore liberante… La
psicoterapia può essere anche vista come arte, nella misura in cui - con
perizia e con ricerca della via più elegante e naturale - riesce a
esprimere il meglio di una persona, conducendola alla verità e alla
bellezza della sua condizione.
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)
Riporto integralmente un interessante articolo dello Psichiatra Cantelmi pubblicato su Avvenire del 2aprile. Tutto da leggere:
OMOGENITORIALITA', LIBERI DI DISSENTIRE?
La vicenda degli psicologi «zittiti» dai loro Ordini sul gender. La
notizia: un certo numero di psicologi ha subìto o sta subendo
procedimenti disciplinari dal proprio Ordine perché hanno espresso
opinioni difformi sul tema del gender e dell’omogenitorialità e
dintorni. Potrei entrare nel dettaglio per ogni singolo procedimento, ma
nel complesso mi sembra di poter sostenere che i vari Ordini regionali
degli psicologi si siano piegati al clima dominante. Lo sappiamo tutti:
oggi le associazioni Lgbt possono far dimettere un politico, licenziare
un manager, boicottare un’industria e rovinare la carriera di un
ricercatore, ma questo non dovrebbe impedire la libertà di ricerca
scientifica, il dibattito, il confronto delle opinioni.
E non dovrebbe neanche condizionare l’operato di un Ordine professionale. A proposito di gender theory: l’American College of Pediatricians il 21 marzo 2016 ha pubblicato un documento dal titolo eloquente: Gender Ideology Harms Children
(«L’ideologia gender danneggia i bambini»). Intanto pongo alcuni
dubbi: può un Ordine stabilire, come se fosse legge, che la teoria
gender non esiste e ritenere questa opinione definitiva obbligando i
suoi iscritti ad aderirvi acriticamente? E quando mai nella scienza
qualcosa è definitivo e non discutibile? L’Ordine è una società
scientifica che stabilisce protocolli, valida terapie e decide di temi
scientifici, oppure ha altri e molto importanti compiti? E soprattutto
può ritenere definitivo e indiscutibile un suo documento che tocca temi
come i gender studies? E infine può 'usare' se stesso per prendere posizione in un dibattito che è politico?
In
questo contesto di evidente parzialità può con imparzialità giudicare
non la condotta deontologica di uno psicologo nell’esercizio della sua
professione ma addirittura le sue affermazioni, legittime e libere, in
un dibattito pubblico? A mio parere è un gran pasticcio, ma la faccenda è
grave: sembra quasi che uno psicologo oggi non sia un cittadino libero
di esprimere le sue opinioni, e soprattutto non sia un ricercatore
libero di mettere in discussione alcuni temi sui quali l’Ordine ritiene
di aver espresso un giudizio inappellabile A onor del vero alcuni
procedimenti, peraltro iniziati sulla base di esposti copia-incolla
chiaramente strumentali, si sono risolti in una bolla di sapone: lo
psicologo aveva pienamente diritto di dire la sua opinione e la
commissione deontologica lo ha riconosciuto. Ma l’intimidazione
esercitata dagli autori degli esposti è riuscita perfettamente. Quello
stesso psicologo, per certo, si sottrarrà a ulteriori dibattiti.
È comunque un vulnus
della libertà. Ovviamente confido nella capacità delle commissioni
deontologiche di colpire non lo psicologo vittima della strumentale
accusa ma gli accusatori in malafede. Prendiamo la questione delle
adozioni da parte di coppie omogenitoriali. L’Ordine degli psicologi del
Lazio, peraltro guidato da un presidente molto capace e attivo,
sostiene che la questione sia scientificamente risolta e invia ai
senatori un dossier – a suo dire autorevole e certo – che dimostrerebbe,
studi alla mano, che non c’è alcun dubbio: i bambini cresciuti in
famiglie omogenitoriali non hanno alcun problema. E se uno psicologo
dicesse il contrario? Potrebbe rischiare il procedimento disciplinare.
Ebbene,
io non la penso così. A essere onesti, esaminando tutta la letteratura
scientifica sul tema, emerge che la maggior parte delle affermazioni
oggi circolanti siano imprudenti perché la maggior parte degli studi
sono stati condotti con modalità sbagliate, metodologie non sempre
corrette e conclusioni azzardate. In definitiva, sulla base della
letteratura scientifica l’unica affermazione corretta a mio parere è
questa: non è possibile affermare che la letteratura scientifica si sia
pronunciata in modo chiaro, univoco e definitivo, e non è possibile
affermare con certezza che lo sviluppo di bambini cresciuti in contesti
omogenitoriali sia equivalente a quello dei bambini cresciuti in
famiglie eterosessuali.
L’altro dato è questo: gli studi
(anche questi altrettanto non univoci e dalla metodologia a volte
incerta), che viceversa dimostrano addirittura che i bimbi cresciuti in
contesti omogenitoriali abbiano più problemi di quelli cresciuti in
famiglie eterosessuali, sono stati puntualmente accusati di omofobia e i
loro autori hanno subìto gravi danni alla loro carriera, prima che la
comunità scientifica correggesse il tiro e ne riconoscesse la validità.
Quindi penso si possa sostenere che finché non ci saranno argomentazioni
solide e coerenti sarebbe giusto che non venisse assunta alcuna
decisione tale da modificare la situazione familiare attuale, in nome di
un principio di prudenza che rispetti l’articolo 3 della Convenzione
sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Onu, nel quale è
scritto che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza
delle istituzioni pubbliche, (...) delle autorità amministrative o degli
organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una
considerazione preminente».
Bene: se fossi psicologo e
affermassi questo in un pubblico dibattito, e alla luce di questo
esprimessi opinioni avverse a quanto affermato dall’Ordine degli
psicologi del Lazio, e un paio di psicologi presentassero un esposto
(più o meno è successo così in altre parti), l’Ordine che diritto
avrebbe di aprire un procedimento disciplinare? Non sarebbe piuttosto
una limitazione (grave) della libertà e un cedimento a richieste
intimidatorie e strumentali dell’esposto? Ripeto: confido nella
saggezza e nel buon senso delle commissioni deontologiche dei vari
Ordini regionali, tuttavia ritengo che non debba essere un riflesso
automatico esposto (per lo più strumentale)-procedimento disciplinare.
Tuttavia, piuttosto che scendere in campo con manipoli di avvocati e
giuristi a loro volta pronti a sommergere Ordini, commissioni e
accusatori di analoghe denunce, vorrei ricondurre il tema a una libera
discussione, fuori dalle intimidazioni da azzeccagarbugli: sono sicuro
che il presidente del Consiglio nazionale degli Ordini degli psicologi e
anche i presidenti degli Ordini regionali implicati a vario titolo
nella polemica vogliano accettare la proposta di un franco e leale
dibattito sulla libertà degli psicologi, oggi a mio parere a rischio,
restituendo loro diritto di parola, di ricerca, di critica e di opinione
difforme. Link: http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/OMOGENITORIALIT-LIBERI-DI-DISSENTIRE-.aspxhttp://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/OMOGENITORIALIT-LIBERI-DI-DISSENTIRE-.aspx
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)