sabato 10 maggio 2008

Nuove tendenze in tema di carcere ?

Fino la seconda metà del 1700, la reclusione non era considerata una vera e propria pena, ma solo una modalità necessaria per poter poi somministrare le pene specifiche stabilite dalle legislazioni correnti, che potevano andare – a seconda delle epoche e dei luoghi – dalle pene corporali, al risarcimento dei danni provocati, all’esilio, alle galere, ecc., con un’attenzione comunque puntata a mantenere un rapporto tra reato commesso e punizione subita, che doveva rispondere ad un’necessità sociale di espiazione. Solo dalla fine del XVIII° secolo è subentrata una considerazione della reclusione in carcere come pena in sé stessa, a cui si è andata gradualmente accompagnando una visione riabilitativa/rieducativa della carcerazione. Si è arrivati poi a considerare la reclusione come un’occasione per favorire il reinserimento sociale del reo. Nella Costituzione italiana troviamo all’articolo 27, comma 3: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
Poi è venuta la Legge 354 del '75, che ha riformato l'intero sistema penitenziario. Si è iniziato a considerare il detenuto come individuo, che aveva sì commesso un reato, ma a cui andava offerta la possibilità di una riabilitazione, attraverso l'offerta di un percorso individualizzato in carcere e la creazione di un trattamento "su misura" per facilitargli un reinserimento sociale. La Legge del '75 nonostante le buone intenzioni non è servita a molto - non si sa se perché basata su presupposti errati o per un'applicazione scorretta. Il numero dei detenuti che tornano a commettere reati dopo la scarcerazione è altissima. Quelli che davvero riprendono una vita regolare sono delle rare eccezioni.Ma il legislatore è andato avanti sulla stessa strada, anzi di più. Spinto da una cultura (non sembra ma la cultura fa sempre da apripista, il problema è quando la cultura diventa brodo di coltura) ideologica, il legislatore ha sfornato sempre maggiori occasioni per i detenuti di uscire dal carcere o diminuirne la durata. L'apoteosi è stato l'indulto dell'anno scorso, provvedimento tanto inopportuno e nocivo quanto demagogico e irrazionale. Non ha prodotto nulla di buono.Ma la coltura va avanti,Nessuno ha il coraggio di fare delle riflessioni serie sul senso della pena, o anche se qualcuno ci prova non si traggono le debite conseguenze. Così, oggi, la tendenza è quella - logicamente consequenziale - della sanitarizzazione del carcere. Il detenuto non è più considerato come persona che ha sbagliato e deve subire le conseguenze negative del suo comportamento, ma come un malato che è stato portato al reato da fattori esterni a lui (malattia mentale, emarginazione, depressione, condizioni sociali o familiari difficili, ecc.) e che quindi va curato. In questo modo il carcere sta diventando sempre più "ospedalizzato", L'attuale passaggio della medicina penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello della Salute testimonia appunto questa scelta ideologica.Ho sentito con le mie orecchie un'alta dirigente del Provveditorato all'Amministrazione Penitenziaria del Lazio esprimere in un pubblico convegno la sua preoccupazione perché i detenuti entravano in carcere "stressati". Evidentemente, secondo la signora,merita più preoccupazione il detenuto stressato che il lavoratore che da quel detenuto è stato scippato del suo stipendio. Così come ho sentito dire in una riunione di commissione al Comune di Roma, che è sacrosanto che un detenuto che deve fare un'analisi in ospedale non debba aspettare quanto un cittadino libero, ma abbia una corsia preferenziale..! Meglio tornare alla nostra riflessione. Questo percorso colturale, che attualmente ha portato all'attuale orientamento di medicalizzazione, è pericoloso, perché arriva a giustificare tutti, a eliminare la responsabilità personale, ed è pericoloso soprattutto perché pedagogicamente nocivo: trasmette il messaggio che commettere reati non è rischioso, e - ancor peggio - che commettere reati è un fatto lieve, in fondo è solo l'effetto della propria condizione su cui non si può far nulla, quindi non è condannabile (mica siamo fondamentalisti, moralisti, intolleranti, ecc. ecc.).Come psicologo mi rendo certamente conto che le persone agiscono spinti da mille condizionamenti, e che la nostra libertà è spesso fortemente compromessa da tante variabili. Ma, paradossalmente, il fatto di agire “come se” le persone fossero libere, il trattarle da adulte e responsabili le aiuta realmente a diventarlo. Un sistema giuridico che offra la certezza della pena, e di una pena seria, non abbatterà certamente il crimine, ma ribadirà l'insegnamento su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Avrà un valore pedagogico. Su questo blog abbiamo già parlato dei padri assenti, dei padri che non sanno dare regole con fermezza, e ne abbiamo visto i danni. In qualche modo essi rappresentano lo stato che non vogliamo, uno stato che ride delle marachelle dei suoi figli, fino a quando si autodistruggono nella totale incoscienza del genitore.
Dobbiamo sempre ricordare che il buonismo è il cancro della bontà, si nasconde sotto una veste di umanitarismo, ma porta a frutti di totalitarismo.


1 commento:

marisa ha detto...

Non condivido affatto quello che scrive. Non dico che chi ha commesso un reato non debba pagare o addirittura debba avere dei privilegi (come citava lei corsie preferenziali all'ospedale)ma la situazione è ben diversa da quella che descrive. Io sono andata personalmente in un carcere e per diverse volte e ho visto con i miei occhi come vivono i detenuti e con quale disprezzo vengono trattati. Non solo non hanno privilegi ma neanche quello che gli spetterebbe come essere umani, ciò che non si negherebbe neanche a un cane. Io ho toccato con mano una sofferenza atroce che non è neanche umana, ho conosciuto uomini privati della dignità di persona, qualcuno dirà meritatamente dato che hanno commesso un errore, ma dov'è la rieducazione? dov'è l'aiuto fornito a queste persone per capire l'errore? i detenuti che ho conosciuto io erano ben consapevoli di ciò che era accaduto nella loro vita e il perchè del loro errore ma ciò per il lavoro interiore che da soli avevano fatto su se stessi alla ricerca di un equilibrio tra le due possibili scelte: impazzire o suicidarsi. Le cose e la vita, caro dottore, e lei lo dovrebbe sapere bene, non sono bianche o nere, non esistono il bene e il male in assoluto ma in ognuno di noi convivono una moltiplicità di aspetti...la linea di confine tra il giusto e l'errore non è mai così netta.
Io l'ho capito grazie alla mia esperienza e ho realizzato che niente è scontato, il mio essere fuori da lì non è scontato.
Se avessimo l'umiltà di riconoscere che nessuno è sempre e comunque padrone delle proprie azioni e che tutti siamo nel pericolo costante di commettere un errore forse saremmo più consapevoli delle nostre fragilità e delle nostre debolezze di esseri umani ed avremmo più attenzione verso chi è stato più debole di noi. D'altronde è la stessa fede cristiana che chiede al pastore di abbandonare il gregge per salvare la pecorella smarrita.