mercoledì 25 febbraio 2015

Perchè esistono le malattie mentali

Mettendo da parte le malattie di tipo più psichiatrico (schizofrenia, psicosi, ecc) che implicano una compromissione della personalità legata a fattori diversi, per quanto riguarda i disturbi psicologici più diffusi possiamo fare un discorso abbastanza semplice e organico, è necessario però richiedere a noi stessi una visione elastica e senza pregiudizi per comprendere l’elemento che accomuna i diversi disagi.
Le varie "famiglie" psicopatologiche, sono risposte, risposte che la persona è in grado di produrre di fronte alle provocazioni della realtà. Per esempio, una persona è depressa piuttosto che ansiosa solo in quanto, rispetto ad uno stesso stimolo, il suo pensiero orienta la risposta emotiva e comportamentale in senso depressivo piuttosto che ansioso. Quindi occorre porsi in'ottica più ampia delle abituali indagini ristrette sulle specifiche sintomatologie presentate dal paziente.
Il problema è perciò il rapporto tra la persona e la realtà. Lì si gioca la salute e la malattia, il tipo di malattia, la resistenza alla guarigione, il rischio di ricadute. Se non comprendiamo come è fatta la realtà che ci circonda non riusciremo mai a comprendere l'intima natura dei disturbi psicologici, né tantomeno a curarli.
La realtà ha una caratteristica propria che la caratterizza, la definisce e e in qualche modo ne rappresenta l'ultima essenza. Questa caratteristica è la sua mortalità. Le cose intorno a noi si disgregano, si corrompono, si ammalano, invecchiano e alla fine scompaiono. Questo processo di morte può avvenire su tempi lunghi, a volte lunghissimi, può essere questione di secondi o di secoli, ma tutto alla fine viene meno.
Questa è la verità della realtà. Può piacere, o - probabilmente - non piacere, ma questo è il sigillo impresso su ogni cosa o essere vivente, sul cosmo, su una formica, su di me.
Generalmente i bambini imparano presto questa verità che si imprime nella loro coscienza. Basta rompere un giocattolo per conoscere il senso della fine delle cose. Basta trovare il barattolo dei biscotti vuoto per capire che le cose non sono eterne. Il problema è che i genitori su questo sono piuttosto inopportuni, e invece di far riflettere i figli, pure grandicelli, su queste esperienze corrono a comprare subito un altro giocattolo, o danno la colpa a un “diavoletto”, o trovano dei rimedi che non rimediano niente: "Andiamo al cinema!". ma il cinema illude e narcotizza, la realtà invece fa crescere e fa diventare uomini e donne mature.
La realtà quindi è mortale. Questa la tremenda e tragica verità che ci circonda e che sfida il nostro desiderio di felicità e di pace. Qui si gioca la salute mentale.
La salute mentale è uno stato di benessere e di serenità interiore, che mantiene integra la consapevolezza della realtà e la capacità di adattarsi ad essa. Ma non è facile. Anzi, per una serie di motivi soprattutto di ordine culturale e valoriale, più la società sfugge dal confronto con la realtà, più le persone sviluppano risposte patologiche e problematiche.
Allora, veniamo al cuore della questione: perché una persona sviluppa un problema psicologico? In fondo non è difficile comprenderlo.
Nel momento in cui l'individuo scopre che la realtà nella quale vive è mortale comprende pure un'altra cosa: che lui non è in grado di controllare pienamente la sua esistenza. Nonostante i suoi desideri, i sogni, i suoi sforzi e la capacità di programmare la vita,  prima o poi, nonostante la programmazione e il controllo, la realtà vincerà sull'uomo e i suoi progetti.  Insomma la nostra coscienza ci ricorda che ci sono dei margini di rischio nella realtà, che non possiamo controllare tutto, che ci sono sempre eventi imperscrutabili che ci possono cogliere di sorpresa, che - in fondo - siamo delle barchette alla mercé di correnti e venti più forti di noi.
La consapevolezza della nostra fragilità, perché di questo stiamo parlando, è ciò che è dietro al dramma dell'uomo e che spiega in fondo tutto il comportamento umano.  Pensiamo soltanto al paganesimo, quello di molti secoli fa ma anche il neo-paganesimo dei giorni nostri. Cosa facevano i pagani? Consapevoli che la vita era a rischio di eventi imprevedibili sacrificavano agli dei cercando di ottenerne la protezione. Ognuno aveva il proprio dio o la propria dea di riferimento, i propri antenati protettori, i propri spiriti ai quali rivolgere preghiere, suppliche, sacrifici, per garantirsi una risposta positiva, per placarne l''ira, o per richiamarne l'attenzione. E quando, nonostante tutto, le cose non andavano per il loro verso allora si interrogavano gli indovini per capire chi o cosa aveva irritato il dio, insomma si cercava un capro espiatorio per sapere con chi prendersela o in che modo ritrovare la benevolenza del proprio suscettibile protettore. Il paganesimo, in fondo è stato il terreno di coltura di tutte le superstizioni, magie, anche di quelle moderne che molti si portano dietro (non esclusa la moda dei tatuaggi, fortemente carica di valenze magiche, pagane e superstiziose).
Ma il pensiero pagano è solo una delle possibili risposte patologiche alla realtà. Ce ne sono molte altre. Una persona che si imbatte nella drammaticità dell'esistenza umana, ad esempio quando muore una persona cara, può improvvisamente rendersi conto che la vita è a rischio e allora reagire con timore e preoccupazione. In questo caso ci troviamo di fronte a tutta la categorie di problemi di ansia e panico. Oppure può evidenziare delle specifiche minacce alla propria integrità, e sviluppare così disturbi fobici. Un'altra, di fronte alle stesse condizioni può lasciarsi andare ad uno scoraggiamento generalizzato di fronte all'esistenza e allora iniziare un percorso di depressione. Un'altra ancora può cercare delle sicurezze attraverso dei comportamenti di rassicurazione, iniziando in tal modo a sviluppare comportamenti ossesivo-compulsivi, e così via.
Uno dei modi peggiori per rispondere alla realtà che non piace è negare la realtà. Ma siccome non si può stare senza realtà ecco che se bisogna crearne una falsa, virtuale. E qui ci troviamo di fronte alla grande categoria di chi vive delle vite finte, doppie, parallele, di chi si crea - per esempio attraverso le dipendenze di qualsiasi tipo – “mondi tossici" nei quali affogare e bearsi, cercando di fuggire la vita vera. E tra questi mondi tossici comprendiamo anche il gioco d'azzardo, la pornografia, le pratiche estreme, ecc, non solo la droga o l'alcool.
Pur non considerandosi generalmente persone problematiche, c'è comunque una categoria umana che raggiunge un apice nel fallimento della risposta alla vita, ed è quella di chi -  non accettando che la realtà abbia l'ultima parola -  si lancia contro di essa con uno sforzo titanico per dominarla e vincerla, a costo di frantumarsi per non cedere. In questo caso parliamo di gnosi, di spiritualismo, di Prometeo; di chi, insomma, pretende di farsi dio per poter vincere sulla morte rifutando di accettare la propria limitatezza. In questa categoria, secondo me assolutamente critica, troviamo per esempio il pensiero di voler dominare la propria corporeità per soggiogarla e dominarla (anoressia, vi ricorda nulla?), o chi si apre a cammini iniziatici sperando di trovare in questi la propria realizzazione e la propria auto-salvezza (buddismo, vi dice nulla?)...
Quindi, come si può vedere, le psicopatologie, cioè i disturbi psicologici, hanno tutti una matrice comune, sono tutti modi sbagliati di rispondere ad un problema vero: la fragilità della vita, la drammaticità dell'esistenza, un'esistenza che sembra correre verso il disfacimento, ma abitata da persone che vorrebbero correre verso l'integrazione e la felicità. Questo è il problema dei problemi, il problema che ha dato vita alla filosofia e alle religioni (e alle psicopatologie nel momento in cui le persone hanno rinnegato la filosofia e la religione). In fondo, non me ne vogliano i miei colleghi, la psicoterapia è il rimedio - in questo senso - al rifiuto di pensare e al rifiuto di credere.
Qual è la via d'uscita? In altre parole, di fronte al problema dei problemi, la fragilità intrinseca della vita, c'è una risposta giusta? Una volta ammesso che le risposte psicopatologiche vanno curate e affrontante perché le conseguenze sono ancor più negative del problema stesso, possiamo individuare delle risposte sane? Mettere la testa sotto la sabbia non è certo raccomandabile. Rifiutarsi di vedere vuol dire esporsi ad una non-vita,  ad uno stato vegetativo indegno di un uomo che invece è nato per usare l'intelligenza e liberamente scegliere dei comportamenti adeguati. A meno che il rifiuto di vedere sia una decisione responsabile e cosciente, ma questo appartiene già ad una precisa scelta di campo filosofica, pur criticabile.
Insomma, come se ne esce?
L'atteggiamento che appare il più consigliabile è quello di guardare le cose nella loro verità, ricordarci che siamo parte di questa realtà, non negarla, non rifiutarla, non fuggirla, ma abbracciarla pienamente, accogliendo con lo stesso spirito sia gli aspetti belli che quelli meno belli della vita e del mondo: perché è fatto così e noi non possiamo fare nulla per cambiare le regole, almeno in modo definitivo e sostanziale. 

Ma questo non basta. La vera sfida è trovare un senso profondo della realtà, quindi sfuggire al nichilismo (da "Nihil= niente, il culto del nulla), sforzarsi di intraprendere un percorso di ricerca ostinata e libera per cogliere un significato nel reale che giustifichi e dia speranza alla nostra vita. Da questo punto di vista i credenti (i veri credenti, non quelli che praticano qualche culto più o meno spirituale nel tempo libero), sono fortunati, perché sono quelli che si ammalano psicologicamente di meno, credendo che il senso della vita sia in un Dio Padre che ama il mondo e lo vuole salvo e che offre la speranza di una vita eterna. Conseguentemente non si spaventano delle vicende e delle fragilità della vita, ma le affrontano con uno sguardo di fede. Chi non è credente certamente va incontro a rischi di sbandamento molto maggiori, ma nessuno che vuole essere davvero sano e libero può tirarsi indietro dalla sfida di essere un cercatore di verità al di fuori di sè. Chi non accetta la sfida è destinato alla sofferenza e al disorientamento.




«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

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