mercoledì 13 settembre 2017

Sul Papa e la psicoanalisi

"la brevità è l'anima della saggezza" (Shakespeare, Amleto) 


Leggo sulla Bussola Quotidiana questo articolo interessante del collega Marchesini sul vespaio sollevato riguardo il Papa e i suoi contatti con la psicoanalisi. Copio e incollo:

Psicologia e cattolicesimo: la soluzione è antropologica
di Roberto Marchesini13-09-2017 lo slogan rimbalzare da una testata all'altra mi è venuto da ridere.
«Il papa sdogana la psicoanalisi» (in tempi cristiani si sarebbe scritto «battezza», o
 «benedice»).
Ovviamente Francesco non ha fatto nulla di simile. Ha semplicemente dichiarato:
«Per sei mesi sono andato a casa sua [di una psicoanalista ebrea] una volta alla
 settimana per chiarire alcune cose». Tutto qui. Una breve consultazione, non sappiamo
 né il perché né con quale esito.
Tanto per dire: papa Benedetto suonava il pianofortestrumento bandito dalle
 chiese; eppure nessuno si è mai sognato di scrivere «Il papa sdogana il pianoforte».
Sarebbe stata una solenne sciocchezza.
Invece accade anche questo, durante questo pontificato. I commenti, poi non
sono da meno: la Chiesa avrebbe «sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”,
 la psicoanalisi, avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver
 infranto il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime».
Finalmente «Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha elevata
a “compagna” dell’anima umana». Niente di meno.
Ma vediamolo, l'atteggiamento della Chiesa nei confronti della psicoanalisi. Cosa
hanno detto i predecessori di Francesco a proposito  della psicoanalisi?
Parlando il 14 settembre 1952 ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale
di Istopatologia del Sistema Nervoso, Pio XII aveva affermato:
«Per liberarsi da pulsioni, inibizioni, e complessi psichici, l'uomo non è libero di eccitare
 in se stesso, per scopi terapeutici, tutti e singoli quegli appetiti della sfera sessuale che
 s'agitano o si son agitati nel suo essere, e sommuovono i loro impuri flutti nel suo
 inconscio o nel suo subconscio. Non può farne l'oggetto delle sue rappresentazioni o dei 
suoi desideri pienamente consci, con tutte le scosse e le ripercussioni che sono
conseguenza di un tale modo di procedere. Per l'uomo e per il cristiano esiste una legge
 d'integrità e di purità, di stima personale, la quale proibisce d'immergersi così 
completamente nel mondo delle rappresentazioni e delle tendenze sessuali. L'interesse
medico e psicoterapeutico del paziente trova qui un limite morale. Non è provato, 
anzi è inesatto, che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte
 integrante indispensabile di ogni psicoterapia seria e degna di tal nome; che l'aver 
trascurato nei tempi passati questo metodo abbia causato gravi danni psichici, errori nella 
dottrina e nella pratica dell'educazione, nella psicoterapia e anche e non meno nella pastorale; 
che sia urgente riempire questa lacuna e iniziare tutti coloro che si occupano di
 questioni psichiche
 alle idee direttrici e perfino, se occorre, all'applicazione pratica di questa tecnica
 della sessualità».
Nell’aprile dello stesso anno sul Bollettino del Clero romano fu pubblicata
una dichiarazione che qualificava come «peccato mortale » ogni pratica della psicoanalisi.
In occasione del Sinodo Romano del 1960, Giovanni XXIII fece inserire un
articolo (n. 239) che metteva in guardia nei confronti di un abbandono
incondizionato del paziente nelle mani dello psicoanalista; e nel 1961 volle
che il Sant’Uffizio emettesse un Monitum per condannare l’opinione secondo
 la quale la psicoanalisi sarebbe necessaria per ricevere gli ordini sacri, o per
 lo meno come esame attitudinale per i candidati al sacerdozio; questo
documento, inoltre, esprimeva il divieto a chierici e religiosi di praticare
 la psicoanalisi, e ai seminaristi di ricorrervi (se non con il permesso dell’Ordinario
 e per gravi motivi).
Anche Paolo VI criticò la psicoanalisi diverse volte; in particolare rimproverava
 a questa dottrina di essere una «psicologia dal basso». Questo pontefice ha indicato
 più volte le sublimi vette che l’animo umano può raggiungere mediante l’ascesi,
 contrapponendole al «torbido fondo» che, secondo la psicoanalisi, costituirebbe
la vera natura umana, da assecondare e liberare.
Giovanni Paolo II ha toccato in più occasioni il tema dell’incompatibilità tra
antropologia cattolica e psicoanalisi. In particolare, nell’udienza generale del
29 ottobre 1980, il Santo Padre si riferisce a Freud come ad un «maestro del sospetto»,
che accusa implacabilmente il cuore dell’uomo di «concupiscenza della carne».
Questa chiarissima posizione può essere dettata solo dal desiderio di conservare
«il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime»? O c'è un
motivo più profondo e serio?
Rudolf Allers, l'unico cattolico ammesso alla presenza di Freud, l'ha scritto con
chiarezza: ciò che differenza una psicologia dall'altra è l'antropologia sulla quale essa di fonda.
L'antropologia cattolica è nota: è quella aristotelico-tomista.
L'uomo è un essere razionale, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. La sua facoltà
più elevata, quella che lo rende simile al Creatore, è la ragione. Essa ha il compito
di discernere il bene e il male. Le passioni sono al servizio della ragione, come nel
mito platonico della biga alata: hanno il compito di condurre l'uomo verso il bene
e lontano dal male.
E la psicoanalisi?
Per questa disciplina il nucleo fondante l'uomo non è la ragione, bensì
 l'inconscio, ossia le passioni (che Freud chiama «pulsioni» perché convinto che
 il loro fondamento sia biologico).
L'istanza morale (cioè la ragione) nella psicoanalisi è il Super-io: «il veicolo
 della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si
sono trasmessi di generazione in generazione» (Sigmund Freud, Introduzione
alla psicoanalisi, in Opere vol XI, Boringhieri, Torino 1979, pag. 179).
Bene. Anzi no, perché il Super-io è considerato da Freud un «tiranno» «crudele».
Abbiamo quindi, nella psicoanalisi, un perfetto rovesciamento dell'antropologia
 cattolica.
Non solo. Quali sono le passioni originarie che costituiscono il fondamento
antropologico freudiano? Le pulsioni sessuali (eros) e omicide (thanatos).
Le stesse passioni originarie che, secondo Nietzsche, potremmo liberare
se eliminassimo la metafisica (cioè la ragione di Tommaso, il Super-io di
Freud): stupro e omicidio.
Dunque la diffidenza della Chiesa nei confronti della psicoanalisi
qualche fondato motivo (a parte la conservazione di immaginari monopoli)
 ce l'ha. E pure con ragione, se consideriamo cosa accadde quando i
chierici avvicinarono la psicoanalisi (mi riferisco all'abate Lamercier e a
 don Eugen Drewermann, dei quali non possiamo occuparci per ragioni di spazio).
Certo, non è mancato chi abbia tentato di «sdoganare» davvero la
 psicoanalisi cercando «ciò che unisce e non ciò che divide».
Penso a Leonardo Ancona; penso a chi ha tentato di «battezzare» Jung
perché «rispetto a Freud è aperto alla spiritualità» (peccato che sia una
spiritualità gnostica e demoniaca); penso a chi va a recuperare
pseudo-sconosciuti psicoanalisti «ostili alle religioni organizzate ma non alla fede».
Siamo ben lungi da una sintonia tra cattolicesimo e psicoanalisi, nonostante
tutti gli sforzi.
Non mancano nemmeno i cattolici psicoanalisti; ne conosco e stimo
 diversi. Ottimi professionisti, ma costretti a scindersi tra le due appartenenze.
La soluzione è quella di costruire una psicologia partendo dal fondamento
 antropologico artistotelico-tomista. Gli esempi – autorevoli, anche se
 sconosciuti ai più – non mancano: Rudolf Allers sopra a tutti; e poi Terruwe
e Baars, Magda Arnold... Autori ai quali, coraggiosamente quanto meritoriamente,
l'editore D'Ettoris sta cercando di dare una voce con una apposita collana.

Niente sdoganamenti, dunque, niente scorciatoie; studio e duro lavoro. Solo in
 questo modo si avrà una piena e fruttuosa collaborazione tra psicologia e cattolicesimo.


 «In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

sabato 9 settembre 2017

Telegramma agli adulti: come rendersi simpatici ad inizio anno

"la brevità è l'anima della saggezza" (Shakespeare, Amleto) 



I giovani vanno trattati come giovani, come persone, cioè, che hanno pochissima esperienza del mondo, della vita, delle sofferenze, che hanno un sistema nervoso che completerà il suo sviluppo verso i vent'anni, che non hanno alcuna saggezza, che sono pieni di energia, ma nessuna idea su come utilizzarla.
I bambini poi sono del tutto immaturi, pieni di egoismi e desideri impossibili, incapaci di badare a loro stessi, con una sensibilità spiccata nel capire chi gli vuole bene e una capacità diabolica nello sfruttare chiunque per soddisfare i loro desideri.
Entrambi sono presuntuosi e convinti che la loro testa abbia sempre ragione e i loro impulsi debbano essere sempre soddisfatti.
I giovani parlano a  sproposito di cose di cui non comprendono la portata. Non è una buona scelta quella di incoraggiarli.
Giovani e bambini rischiano di essere sempre sopravvalutati, ma soprattutto nella nostra società che contemporaneamente li adùla, li sfrutta e li manipola, devono invece ricevere il dono più grande, segno di amore e rispetto: quello di essere messi al loro posto. E il loro posto non è il centro del mondo, ma un angolo ben illuminato da dove osservare il mondo in compagnia di un maestro.
I giovani non sanno nulla, devono imparare tutto. Lentamente, progressivamente, prudentemente. La loro conoscenza delle nuove tecnologie è semplicemente un abilità pratica, non superiore a quella dei bambini di inizio novecento che sapevano costruire una fionda e colpire una lucertola a cinquanta metri, non è saggezza. La saggezza, cioè il saper vivere consapevolmente e liberamente, la acquisiamo negli anni sotto la guida di persone esperte, presenti, forti e attente. Possibilmente i genitori.
Il cuore dei bambini non è innocente, però ha l'istinto di sapere a chi affidarsi per essere guidato e corretto. Non tradiamoli affidando la loro vita a internet, televisione o centri commerciali.


 «In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)