martedì 28 ottobre 2014

Scrivo, quindi sono

Non so cosa scrivere, oggi, ma non mi darò per vinto.
Il rumore del treno non mi distrae dal mio compito, anzi dalla mia missione. È una lotta interiore tremenda, mi scortica l'anima.  
Non ci riesco. Angoscia. Non posso rinunciare, è indispensabile, il mio blog, povera creatura. Non posso accettare che la "gente" possa avere l'esistenza sconvolta senza il dono almeno settimanale delle mie preziose considerazioni sulla vita.
Si, non posso farne a meno. Giro freneticamente gli occhi intorno per trovare spunti e idee da utilizzare. Ancora niente, oggi è una giornata orribile, vuoto dentro e desolazione fuori. Forse è il cambio orario, ho sempre minimizzato l'effetto del cambio orario, e adesso lui si vendica, togliendomi parole e possibilità. Davanti a me la tastiera mi guarda sgomenta, con suoi spazi neri tra rettangoli bianchi, inutile come un pianoforte stonato, ferita come un pugile suonato.  Niente, nessuna idea, il vuoto del mondo mi avvolge, sto per cedere.
Di fronte a me non passa tutta la mia vita, come per chi sta affogando, ma passano immagini di schiere e schiere di uomini e donne in lacrime: gli orfani della mia saggia profondità.
Mi sento un verme a privarli per oggi, e ho paura che sia un oggi eterno, delle mie osservazioni scritte che sono il loro nutrimento. Come farò a giustificarmi di fronte al tribunale del tempo? Qualcuno punterà il dito contro le dita pigre e apatiche, incapaci di dare forma grafica e suono scandito al qualcosa che intasa vanamente la mia mente. Il treno è quasi arrivato, il tablet sogghigna, mi sta facendo pagare - insieme al cambio orario - il mio menefreghismo totale per halloween, sogghigna e trema, no, forse sono i freni del treno. Devo sbrigarmi, mi precipito verso le porte aperte del vagone. Mentre scendo gli scalini mi domando se ho lasciato qualcosa sulla poltrona, si qualcosa è rimasto a bordo, temo, mentre il treno riparte, mentre sui binari le ruote ricominciano la loro monotona marcia: ho lasciato sul treno ogni residuo di dignità.
 
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

mercoledì 22 ottobre 2014

"Dottore, sarà normale?"

 
E' la domanda più frequente che uno psicologo si sente fare. La domanda che più di ogni altra esprime da una parte, il desiderio di comportarsi in maniera normale, dall'altra la paura che il proprio comportamento non sia normale.
Ma nornale, nel linguaggio comune assume un significato che oscilla tra "sano di mente", "uguale agli altri", "senza fragilità", ecc. Quindi la domanda posta vuol dire: "Dottore mi dica se sono malato di mente, se sono simile agli altri, se il mio comportamento è sano, se mi devo preoccupare...". E' evidente che ad una domanda di questo tipo non si può rispondere. Primo, perchè se uno è malato di mente non capirebbe se io gli dicessi che è malato di mente. Secondo, perchè nessuno è simile a qualcun altro, quindi ogni confronto è fuorviante. Terzo, perchè un comortamento non è normale o anormale in assoluto, ma solo in riferimento a qualcos'altro. Quarto, perchè la misura della nostra salute mentale non sta nella statistica, e cioè in quale percentuale noi ci discostiamo dal comportamento medio di un gruppo di riferimento.
All'università, quelle pochissime volte che ci sono stato (preferivo studiare per conto mio),ricordo come un incubo quelle lezioni in cui un professore si divertiva a farci rompere la testa sul discorso della normalità. E dopo averci esaurito dimostrandoci che il concetto di normalità in psicologia non aveva molto senso ci lasciava alla fine senza averci dato la chiave della soluzione. Ora, alla luce dell'esperienza e della maturata conscenza delle persone, credo di poter dire che la chiave non ce la forniva semplicemente perchè da bravo scienziato positivista-marxista qual'era non poteva concepire la soluzione, che stava al di là delle sue categorie. Il problema però, è che questo professore era in buona copmpagnia, e molti altri colleghi sapevano solo dire cosa non era la normalità, ma nessuno si azzardava a dire cos'era.
Io non sono uno scienziato positivista marxista, nè tanto meno professore universitario, ma un semplice artigiano della psicoterapia, penso, e non per esserci arrivato da me, ma grazie all'esperienza di tanti pazienti e a mille aiuti, che la chiave della normalità ci sia.


Noi realizziamo la nostra identità e viviamo con pienezza usando la capacità di agire da persone libere. Coscienti di noi stessi e capaci di decidere nel rispetto del sistema sociale di cui facciamo parte, ma anche con quel giusto spirito critico che ci rende coerenti con i nostri principi, sviluppiamo quella "normalità", che è la salute. Chi soffre di disturbi psicologici è una persona che ha uno spazio di libertà ridotto a causa di limitazioni derivanti da blocchi dello sviluppo psichico, da traumi, da educazione sbagliata, ecc. Ma la "normalità" assoluta, come la salute assoluta, è un progressivo avvicinamento ad un ideale che non si finisce mai di possedere interamente, è libertà che tende all'infinito. Perciò la salute è dinamica, mai acquisita del tutto, è in qualche modo un "Lavoro in corso" per strappare al caos un sempre maggiore spazio di libertà, quindi di ordine, dipendenza di giudizio alla luce di pricipi esterni. E' importante ricordarci che i nostri riferimenti per il giudizio devono essere esterni a noi. Uno schizofrenico o uno psicotico grave in fondo sono persone che hanno uno spazio di libertà nullo, in quanto completamente autoreferenziale, senza confronto con un'oggettività indipendente dal proprio io.
Essendo la normalità un cammino di indipendenza, i problemi di salute psicologica che si possono incontrare lungo la strada vanno visti – e curati – come osatacoli a questo cammino. Il terapeuta svolge bene il suo lavoro quando aiuta il paziente a rimuovere questi ostacoli e a fargli riprendere autonomamente il suo percorso, non offrendogli la propria strada, ma aiutandolo a correggere quelle scelte che lo hanno indirizzato su strade senza uscita.

Silvio Rossi, 2014 Tutti i diritti riservati

«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

martedì 21 ottobre 2014

Pensieri controcorrente

 Si potrebbe anche migliorare, comunque:

Massimo Fini

Malgioglio



«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

martedì 14 ottobre 2014

Emozioni, istruzioni per l'uso


Non è la prima volta che ne parlo, ma non posso fare a meno di sottolinearlo di nuovo, visto che ascolto quotidianamente persone che presentano lo stesso problema. Oggi viviamo nell'epoca dell'emozione patologica. Non che le emozioni si ammalino, ma siamo noi che siamo ammalati di emozionismo. E ci ammaliamo perché ci siamo abituati a farci guidare dagli affetti. La parola d'ordine è 'Mi sento...' oppure 'Non mi sento...'. Tutto dipende nella nostra vita da quali emozioni ci invadono momento per momento, e in base a quelle decidiamo. Ma siccome le emozioni sono ballerine anche le decisioni lo saranno. Così ci mancherà ogni stabilità o scelta irrevocabile e saremo sempre bandierine al vento (compreso anche quel che riguarda le scelte di coppia). 
Visto che non possiamo liberarci delle emozioni e non saremo mai novelli dott. Spock - il famoso personaggio puramente razionale di Star Trek -  proviamo a conoscerle meglio nella speranza di non farci schiavizzare da esse.


Le emozioni si assomigliano molto da un punto di vista neurofisiologico. Sono il frutto di una attivazione del sistema nervoso piuttosto complessa su cui non è il caso di soffermarci qui. La percezione che di esse abbiamo, invece, è diversa e dipende dal tipo di pensiero associato.  Ci sono quattro direttrici fondamentali: 1. Paura, 2. Rabbia, 3. Tristezza, 4. Gioia. Quando una di queste diventa dominante e pervasiva, impregnando di sé la persona, emerge il corrispondente stato patologico: A. Ansia-fobia, B. Aggressività, C. Depressione, D. Mania.
La paura è legata ad una percezione di un pericolo imminente, la rabbia ad una percezione di limitazione di noi stessi, la depressione ad un'esperienza di perdita/ abbandono, la gioia a quella di acquisizione/possesso. Naturalmente queste emozioni possono essere legate sia a fatti veri che immaginari, sia attuali che passati o anticipati. Per esempio, io posso essere gioioso pensando ad un regalo ricevuto quando ero bambino, ad uno reale che ho ricevuto adesso o ad uno immaginario che però spero di ricevere il prossimo mese.
Le emozioni sono accettabili quando si riferiscono a cose vere o verosimili o probabili. O quando arrivano in corrispondenza di questi stimoli. Sono inaccettabili e fonti di disturbo quando sono estranee al contesto, slegate da una causa proporzionata e permangono per un tempo significativamente superiore alla durata dello stimolo. Quando le emozioni sono – per così dire – “in fuorigioco” si rischia di sviluppare uno stato di sofferenza psichica e soprattutto di compromettere l'uso della propria libertà. In questo caso occorre porre rapidamente rimedio per non scivolare in una dipendenza emozionale.
Considerato tutto il fastidio che provocano, ci possiamo domandare a cosa servano le emozioni. Tecnicamente hanno lo scopo di fornire un'interfaccia tra gli eventi, il pensiero e l'azione. Sono i fornitori della giusta energia psichica per affrontare gli eventi che il pensiero ha analizzato. Il risultato è Il comportamento corretto eseguito con la giusta energia. Quindi le emozioni sono utilissime per un approccio equilibrato alla realtà, ma a patto che tutto passi attraverso l’elaborazione della ragione.
È evidente che un dott. Spock, cioè un individuo completamente privo di emozioni sia nella realtà un malato di mente, uno psicopatico non in grado di modulare la propria vita psichica e incapace di provare quelle esperienze gratificanti legate al vissuto di alcune emozioni o al superamento di altre. Ma è pur vero che il sentimentalista che patisce per tutto e la romantica che vive solo con il suo cuore nella tempesta, non stiano molto meglio.
La salute psichica è fatta di equilibrio e relazione tra le parti del sé. L'eccesso di una sulle altre può voler dire disturbo.
Si può superare la faticosissima altalena delle emozioni? Si può raggiungere l’imperturbabilità dei sensi come un asceta buddista? A parte il fatto che, oriente per oriente, tra lo gnosticismo settario del triste buddismo e il mercato variopinto dell’induismo, la sapiente allegria taoista è di gran lunga più stimolante, ma queste sono opinioni. In realtà, e senza scomodarci con viaggi mistici, è possibile intraprendere un cammino per la pacificazione interiore che non mortifichi l’espressione sana delle emozioni, ma che le unifichi in uno sguardo unico di stabilità. E questa è un’altra storia… 

Silvio Rossi 14/10/2014 Tutti i diritti riservati


«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)

martedì 7 ottobre 2014

La "Belle Epoque" delle nuvolette rosa

Brevissima storia della degenerazione femminile, dagli aborti della Bonino al culto Neopagano della Grande Madre


Diciamoci la verità, il femminismo non è mai stato un fenomeno particolarmente intelligente, ma quantomeno aveva un'apparenza di impegno politico, di confronto con la società. Certo, ha contribuito con i suoi slogan ripetuti passivamente e ossessivamente ad operare un ampio condizionamento pseudoculturale che non ha giovato alle donne, ma almeno ha elaborato dei manifesti programmatici. Insomma, dava quasi l'impressione di avere buone intenzioni. 

Evidentemente i proverbi non passano di moda. “Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno” diceva uno di quelli, e non sbagliava. Perché le intenzioni del femminismo impegnato hanno provocato l'inferno nel cuore delle donne.
Nel cuore delle donne c’era la capacità straordinaria di 'capire la fame', cioè accorgersi dei bisogni e delle necessità degli altri e di capire quale nutrimento servisse di volta in volta. Un'intelligenza emotiva tipicamente femminile, dotata di uno sguardo che coglieva i segnali e un istinto che precorreva lo sguardo. Capire la fame in famiglia, che permetteva che ognuno fosse considerato e fosse nutrito; capire la fame del neonato che ancora non parlava; capire la fame di chiunque si sentisse smarrito. La donna, non l'uomo, sapeva fare questo, e la donna, non l'uomo si realizzava in questo. 'Nutrire' secondo il pensiero tradizionale era lo specifico femminino, ma gli antichi non avevano ancora conosciuto il malefico potere delle femministe. E infatti oggi, la maggior parte delle donne ha perso questo dono.
Uno dei fenomeni più drammatici dei nostri tempi, che mi è capitato di osservare in prima persona almeno in tre casi, è la separazione in cui è la madre ad allontanarsi abbandonando i figli, rifiutando di aver più a che fare con loro. Da un punto di vista psicologico mi sembra quasi più grave dell'aborto. Se non altro perché quando si decide di uccidere il bimbo nella pancia, si ricorre a penose forme di autoassoluzione che denotano la drammatica consapevolezza di quello che si sta per fare. Invece, nei casi di abbandono ho rilevato una glaciale indifferenza di base, una distanza emotiva inspiegabile in chi quei figli li ha tenuti in grembo, cullati, cresciuti, guardati in faccia. Capisco perfino di più l'uccisione di un figlio grande, in un attimo di follia, che una vita intera di cancellazione di un figlio dal proprio cuore.
La degenerazione dell’essenza femminile ha mutilato nel profondo le donne. La magica capacità di guardare al di là del proprio Io per cogliere e rispondere alle domande inespresse dell’altro, è stata smarrita. Il femminismo ha insegnato alle sue vittime a rivolgere lo sguardo su di sé, per esattezza sulla propria vagina, auto-centrandosi, trasformando il corpo di madre in carne utilizzata come arma politica. Così la donna, più o meno rispettata, ma sempre considerata persona, è stata trasformata in oggetto. Successivamente, ma in modo assolutamente conseguenziale, la donna-oggetto ha imparato a considerare anche gli altri come oggetti, a cominciare dal frutto dei suoi accoppiamenti (non più gesti d’amore, perché le persone si amano, gli oggetti si accoppiano). Da qui il senso di possesso sui figli come proprietà privata di cui disporre a piacimento, e da far morire al bisogno. Da qui il vedere gli uomini come oggetti con cui stabilire quindi un rapporto mercantile: finché va, finché il giocattolo non si rompe… e così via, con tutti i frutti avvelenati dell’albero malato e perverso del femminismo.

Oggi, si dice, il femminismo è finito. Certo, come il comunismo. Ma se crolla il muro di Berlino dell’odio e della separazione, non vengono meno le ideologie materialiste, violente e discriminatorie seminate da questa ideologia. Allo stesso modo, se pure non si vedono più Emme Bonino sfilare in piazza rivendicando il diritto ad ammazzare feti (molte sono in parlamento alla faccia nostra), le conseguenze di perversione e inaridimento sociale provocate dall’ideologia femminista sono ancora in mezzo a noi. Da una parte troviamo la ridicola e a-scientifica teoria del gender (ognuno si sceglie il sesso che preferisce), dall’altra lo scollamento dalla realtà che molte donne presentano. Uo scollamento dalla realtà dovuto al progressivo scollamento dalla propria essenza. E’ frequentissimo trovare signore mature, di 40/50 anni che ancora si dilettano a postare su Facebook, pensierini insulsi conditi da angioletti rosa, fiorellini lilla, cuoricini e arcobaleni tra scintille e farfalline. Donne che, non riuscendo a trovarsi nel loro ruolo di mogli e madri, si travestono da adolescenti in fiore che, quanto meno - le adolescenti - proprio per la loro età, ispirano tenerezza. Loro invece fanno le single, che non significa che non hanno trovato nessuno, anzi magari ne hanno avuti pure troppi, ma che purtroppo non sono riuscite a diventare qualcuno per alcuno. Te le trovi novelle neo-pagane dedite al culto inconscio della Grande Madre, nelle sette buddiste a meditare, o a Mediugorje a fotografare nuvolette in cui si illudono di vedere chissà cosa (con tutto rispetto per chi crede in queste apparizioni private, su cui pure la Chiesa continua a nutrire parecchi dubbi). Te le ritrovi a promuovere battaglie legali a favore dei cagnolini o degli orsi abbattuti dai cattivoni – che guarda caso continuano ad essere i maschi, posto che ce ne sia ancora qualcuno, di maschio.

Emma, gioca con un bambino e una pompa
C’è speranza per le donne?  

Una domanda che non riguarda solo le donne, ma tutta la società, perché senza le donne la compagine sociale non può che colare definitivamente a picco. Certo che c’è, ma la speranza passa solo attraverso un profondo bagno di verità e onestà. Bisogna che le donne abbiano il coraggio di rinnegare il cancro del femminismo, ammettere di essere state ingannate e violentate da quella ideologia dell’odio. Occorre chiedere perdono ai milioni di bambini uccisi con l’aborto, sia quelle che l’hanno fatto, sia quelle che l’hanno comunque approvato e caldeggiato. Occorre che l’uomo faccia un mea culpa profonda per aver messo le donne nelle condizioni di chiedere aiuto a briganti e iene feroci. Insomma, bisogna ridare una dignità alla persona, che non è merce o oggetto da possedere, bisogna riscoprire le diversità, valorizzarle ed armonizzarle. Non basterà una generazione, non basterà una superficiale riflessione. Occorrerà un movimento coraggioso controcorrente promosso dalle stesse donne, per ripulire il mondo femminile dalla lebbra che è scaturita un secolo fa, e che continua ad essere diffusa dai moderni untori: le pubblicità che insistono a dipingere donne/cose usa e getta, i programmi che tanto attraggono le ragazzine, ma solo quelle carine e sculettanti, i genitori che insegnano alle figlie che farsi oggetto gli garantirà un futuro da mantenute di lusso e una coscienza da baldracche.  
 
«In questo tempo di inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario» (George Orwell)